Nuove beghe legali per Starbucks: questa volta nel mirino delle accuse ci sono finite le sue bevande alla frutta che, a quanto pare, di frutta non ne contengono
Non c’è pace per Starbucks: dopo essere stata accusata di aver ostacolato la formazione di rappresentanze sindacali, licenziando i dipendenti attivi, di aver rimosso le decorazioni nel mese del Pride, ora – a poche ore di distanza dall’uscita di scena di Howard Schultz, non più parte del consiglio di amministrazione – l’azienda di caffè di Seattle che più di ogni altra continua a far chiacchierare appassionati e addetti ai lavori di tutto il mondo, torna di nuovo al centro dell’attenzione.
L’accusa di frode nei confronti di Starbucks e i suoi Refresher
Stavolta, il colosso è finito in tribunale per via dei suoi Refresher, i drink alla frutta che però non contengono alcuna frutta. Il che effettivamente potrebbe far storcere il naso ai clienti visto che in tali bevande mancherebbe proprio l’ingrediente principale.
Essendo negli Stati Uniti, Starbucks è stato portato in tribunale da una class action: qui il giudice distrettuale John Cronan a Manhattan ha respinto la richiesta di Starbucks di archiviare nove delle undici accuse contenute proprio in questa class action, sostenendo che “una parte significativa di consumatori ragionevoli” si aspetta che le bevande contenessero la frutta menzionata nei nomi.
I consumatori USA si sono lamentati del fatto che le bevande chiamate Mango Dragonfruit, Mango Dragonfruit Lemonade, Pineapple Passionfruit, Pineapple Passionfruit Lemonade, Strawberry Açai e Strawberry Açai Lemonade, tutte appartenenti alla gamma Refresher di Starbucks, non contenevano nessuno dei frutti promessi. Di sicuro non contenevano mango, il frutto della passione o l’acai pubblicizzati.
Gli autori principali della class action, Joan Kominis di Astoria, New York e Jason McAllister di Fairfield, California, hanno affermato che gli ingredienti principali di queste bevande erano acqua, succo d’uva concentrato e zucchero.
Starbucks era dunque reo di aver utilizzato dei nomi fuorvianti per poter aggiungere un sovprapprezzo alle bevande. Il che, secondo la loro denuncia, violava le leggi per la protezione dei consumatori.
Ecco che Starbucks si è difesa appellandosi agli aromi, dicendo che i nomi scelti erano stati usati per indicare il profilo aromatico di ogni bevanda, e non la lista degli ingredienti (contrattacco ineccepibile).
Inoltre, ha aggiunto il gigante di Seattle, i clienti avrebbero potuto chiedere di visionare gli ingredienti nel punto vendita, in modo da dare la possibilità allo staff di chiarire eventuali equivoci.
Effettivamente il ragionamento fila: come i ghiaccioli al limone che non avranno mai visto dei limoni veri in vita loro, perché si tratta di semplici aromi.
Eppure il giudice ha dato ragione a questi clienti puntigliosi: a differenza del termine “vaniglia”, attuale oggetto di molte cause legali, nulla indica che le parole mango, frutto della passione e acai siano termini che solitamente sono intesi come sapori.
Inoltre secondo il giudice per i clienti è facile confondersi in quanto altri prodotti di Starbucks contengono davvero come ingredienti quelli che il loro nome pubblicizza. Per esempio nell’Ice Matcha Tea Milk è davvero presente il tè matcha, mentre l’Honey Citrus Mint Tea contiene davvero miele e menta.
Tuttavia il giudice ha respinto l’accusa di frode poiché non ci sono prove valide che dimostrino che l’azienda abbia tentato di truffare i consumatori.
Che ne è allora dei bubble tea, le bibite dolci “alla frutta” con sfere di tapioca, piene di polverine, insaporitori vari ma senza frutta? Per ora, comunque, non c’è tregua per Starbucks: Robert Abiri, avvocato dei querelanti, è intenzionato a procedere, e il big del caffè è già pronto a difendersi.